Segnaliamo l'uscita, sulla rivista Alfabeta2 - spazio di intervento culturale, del nostro articolo Scrittura industriale e industria editoriale: una proposta (non troppo) modesta
-
Scrittura industriale e industria editoriale: una proposta (non troppo) modesta
di Gregorio Magini & Vanni Santoni
Da quando nel 2007 presentammo al pubblico il progetto Sic, Scrittura industriale collettiva, quella parola in mezzo alla nostra sigla, «industriale», è stata per noi croce e delizia. Delizia per lo sdegno che cagionava alle poetesse della domenica, croce – voluta – per l’inevitabile accostamento alla «letteratura industriale» intesa nel senso più deteriore, ovvero quella prodotta da squadriglie prezzolate nascoste dietro al nome di un autore famoso. È nostra intenzione esplorare questo confronto – non è forse scrittura collettiva anche quella «letteratura industriale» in cui l’autore butta giù l’idea o qualche pagina, l’editor compone e propone, i ghostwriter sgobbano?
Prima di entrare nel merito, è necessaria una premessa per introdurre a chi non lo conoscesse il progetto Sic e le questioni che ha sollevato e solleva. Sic «indica un metodo di scrittura collettiva e la comunità di scrittori che lo utilizzano»: in quattro anni di vita, il progetto ha portato alla realizzazione di cinque racconti (con un numero di autori compreso tra 5 e 7) e di un romanzo (con oltre 100 autori), attualmente in corso di revisione. I principi regolatori e i meccanismi del metodo Sic furono elaborati analizzando i pro e i contro di varie pratiche di scrittura collettiva, come le scritture «a staffetta» e quelle in crowdsourcing, nessuna delle quali sembrava riuscire a sfruttare al 100% le potenzialità del lavoro di gruppo. Comprendemmo che era necessario superare i problemi di omogeneità insiti nella scrittura a staffetta e coniugare gli aspetti di libertà creativa resi possibili dal «wiki» con la necessità di limitare i personalismi dei singoli; era inoltre necessario rendere possibile una generazione graduale e condivisa di contenuto anche nel caso in cui gli scrittori non avessero una visione univoca de testo da produrre.
La prima innovazione introdotta fu la suddivisione dei vari aspetti della narrazione in schede, ognuna dedicata a un aspetto del soggetto: un personaggio, un luogo, e così via, fino alle vicende. La seconda innovazione fu la divisione dei ruoli: da un lato gli scrittori, dall’altro i «direttori artistici», ovvero coloro che si occupano del montaggio dell’opera, ma non partecipano alla scrittura, onde garantirne l’imparzialità. Ogni scheda prevista dal piano dell’opera (si va dalle decine per un racconto, alle centinaia per un romanzo) viene quindi compilata da tre o più scrittori; il Da ritira le schede individuali e le compone. Il processo di composizione consiste nel prendere le parti migliori o più coerenti di ogni scheda individuale e di comporle in modo da ottenere una scheda di qualità e interesse superiore alle singole. Poniamo che il Da si trovi davanti le due seguenti mini-schede individuali:
(1a) / Le donne, i cavallier, gli alfieri e i fanti /
(1b) / Le gesta degli eroi, l’arme, gli amori /
Il suo compito sarà creare:
(1c) / Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori /
Quando il Da ha completato la composizione di una scheda, la restituisce in lettura agli scrittori perché la facciano propria e si passa alla successiva. Con l’impresa del Grande Romanzo, iniziata nel febbraio del 2009 e oggi prossima alla fine, abbiamo portato alcune modifiche al metodo, volte a generare collettivamente anche il soggetto di partenza e a gestire un gruppo di grandi dimensioni, ma l’impianto è rimasto quello originario qui descritto.
Il progetto Sic nasce dunque dalla specifica volontà di portare la scrittura collettiva su un altro livello teorico e qualitativo, per mezzo della codificazione di un metodo e del suo utilizzo – la sua «dimostrazione» – nella stesura di un romanzo. Fermo restando ciò, è pur vero che abbiamo scelto per il nostro nome il lemma «Industriale» in virtù di una presa di posizione: da un lato uno sberleffo agli oppositori della scrittura collettiva, secondo cui il gesto artistico può essere solo individuale, dall’altro la volontà di mettere una pulce nell’orecchio ai protagonisti della vera letteratura industriale, quella dove qualcuno mette il nome e qualcun altro, in filiera, produce il libro. Da quando poi abbiamo scelto questo nome, hanno iniziato a scaturire nelle nostre teste visioni distopiche (o utopiche?): grandiose filiere letterarie, capannoni pieni di scrittori impegnati a generare un best seller dopo l’altro… Fantasie, certo, dietro alle quali si cela però la volontà di dare legittimità al lavoro collettivo, qualunque esso sia. Basta esser chiari: se l’obiettivo è creare valida fiction commerciale, c’è forse da vergognarsi di usare uno o più ghost? A nostro avviso no, anzi, in un contesto di avvenuta legittimazione della scrittura collettiva, i «coming out» sarebbero sempre più facili e frequenti.
Oggi, al termine dei lavori del Grande Romanzo Sic, ci troviamo con un cast di 114 autori, così divisi: Ideazione e coordinamento, 2 persone; Direzione artistica, 4 persone; Scrittura, 71 persone; Revisione, 12 persone; Revisione storica, 4 persone; Traduttori dialettali, 13 persone; Aneddotisti, 41 persone. (nota: il totale ammonta a 147 poiché alcuni ruoli sono sovrapposti: molti dei traduttori dialettali e degli aneddotisti, ad esempio, sono anche scrittori). Aldilà degli oltre cento che hanno scritto il libro – il processo di composizione SIC è comunque una forma di scrittura – si noterà che abbiamo incluso nel cast, con tanto di percentuale di lavoro fatto e conseguente fetta di royalties, anche i revisori. Ovvero, per dirla con un termine più familiare per addetti ai lavori e non, gli editor (esercizio mentale: si immagini un libro dello scrittore X dove, nel colophon, si dice: lo scrittore X è autore del 93% di questo testo; l’editor Y del 7%).
La premessa di questa puntigliosa distribuzione di meriti e profitti è che consideriamo tutti i partecipanti come autori – frammenti di autori, se si vuole – non come salariati. Sicuramente la ripartizione non è perfetta, poiché chi scrive molto ma male viene premiato rispetto a chi scrive poco ma bene, ma una qualche distorsione è inevitabile quando, come in questo caso, è necessario appiattire un insieme complesso di fattori, molti dei quali soggettivi, su un piano quantitativo. Comunque sia, il nostro è un tentativo di ripartizione su basi oggettive che ha il preciso scopo di rendere giustizia a tutti. Noi speriamo che un simile «uso consapevole» della scrittura collettiva possa scuotere gli interessi in gioco con la forza che un intervento dall’esterno difficilmente potrebbe avere.
Vediamo quali sono questi interessi, a cominciare dal sintomo della vergogna dello scrittore verso i suoi ghostwriter. Se gli chiedessimo il motivo per cui non ne fa mai menzione, probabilmente otterremmo in risposta una smentita («i fantasmi non esistono») oppure un silenzio imbarazzato, ma se lo mettessimo sotto tortura possiamo star certi che la sua prima concessione sarebbe: «Io non c’entro. È una decisione della casa editrice». Vero. Gli editori hanno un asset economico da coltivare, un richiamo per i lettori: il nome dell’autore. Non hanno alcun motivo di rischiare di annacquarlo con l’aggiunta di ingredienti minori. Potremmo insistere, inquisire: «Sei d’accordo o no con questa scelta della casa editrice?» – e giù un altro giro di ruota. Lo scrittore dovrebbe confessare che sì, è d’accordo, perché il merito dell’opera è suo, e ghostwriter e editor non hanno fatto altro che obbedire agli ordini o al massimo hanno svolto un ruolo di «tecnici» sotto la sua direzione «creativa». Siamo soddisfatti, lo lasciamo andare.
Non c’è neanche bisogno di discutere l’assurdità di una simile distinzione. Siamo evidentemente di fronte a un’alleanza: autore e casa editrice si spartiscono proventi e merito in maniera asimmetrica, in modo tale da massimizzare entrambi, al prezzo di disconoscere il contributo di altri. Gli «altri» sono salariati della casa editrice, non co-autori e neanche collaboratori dell’autore. Non avrebbero alcun diritto di influire sull’andamento dell’opera, ma siccome non possono evitare di farlo, per coprire la contraddizione ci s’inventa la pezzuola dell’intervento tecnico.
Proviamo invece a immaginare un’industria editoriale in cui questa segregazione non ha luogo: i nomi d’autore di chi non lavora da solo sono sempre più spesso nomi collettivi e i lettori si stanno abituando, il che tranquillizza le case editrici. Anche i libri che portano un nome individuale contengono di solito una lista dei collaboratori (editor e «aiuto scrittori»). L’autore ha perso parte della sua aura ma ha guadagnato un rapporto più franco con se stesso, i lettori e i colleghi. Alcuni giovani scrittori, allenati alla dura, ma non più oscura, palestra della scrittura per qualcun altro, hanno avuto modo e capacità di pubblicare anche opere in proprio… Chi ci rimette in questo scenario? Solo una categoria di autori: quelli che non hanno remore a trarre un tornaconto economico e di prestigio personale dal piazzare la propria firma su un testo scritto da altri.
Riguardo alla questione della «palestra», è stato curioso riscontrare come, alla chiusura dei lavori di scrittura del Grande Romanzo Sic siano arrivati, oltre ai classici «evviva», anche messaggi di ringraziamento da parte di molti scrittori, i quali spiegavano il grande ruolo formativo che i lavori del Grande Romanzo avevano avuto per la loro scrittura. Certo per la questione della disciplina – il metodo SIC impone scadenze rigorose e frequenti – ma anche, in alcuni casi, per aver potuto fare qualcosa per la quale normalmente non avrebbero avuto il tempo o l’esperienza: confrontarsi da scrittori con una narrazione ampia e complessa – un romanzo storico di oltre trecento pagine.
La filiera di scrittura collettiva ha qualcosa della bottega rinascimentale, dove l’officina di creazione dell’opera d’arte era integrata, per costituzione, con il luogo di formazione di artisti. Vi è in effetti una differenza sostanziale tra una bottega e una scuola: la bottega fa l’opera, e non la fa mai – non la può fare – per gioco o per prova, la fa sempre e comunque in vista del committente o della vendita. Questa serietà, oltre al fatto di avere fianco un maestro che – lui pure – è lì per lavorare seriamente, e lo fa, ha un potenziale formativo ampiamente superiore a quello di qualunque scuola. Se il Ghirlandaio ha bisogno di uno sfondo, il giovane Michelangelo lo fa per il quadro che andrà in chiesa, e quindi cercherà anche di farlo molto bene. Non più, dunque, la scuola di scrittura creativa (l’accademia) da una parte, e la cameretta dello scrittore (l’atelier) dall’altra, ma un solo luogo di produzione, ricerca e apprendimento.
È possibile che questa immagine sia solo una fantasia: siamo ben consapevoli del fatto che le modalità di produzione e di commercializzazione – per non parlare di quelle di formazione – non si cambiano con proposte estemporanee. La nostra è una ricerca delle possibilità della scrittura collettiva: non aspira a imporsi come modello, quanto a indicare l’esistenza di un territorio della scrittura, e dell’editoria, ancora largamente inesplorato.